Data: 30/09/2003 - Anno: 9 - Numero: 3 - Pagina: 24 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
Letture: 1387
AUTORE: Daniela Trapasso (Altri articoli dell'autore)
Quando mi è stato chiesto di scrivere un ricordo di Dino Frisullo ho subito accettato l’invito, felice di poter scrivere di una persona speciale, un grande Amico, che ho avuto la fortuna di incontrare e con cui ho avuto il privilegio di percorrere un pezzetto di strada insieme. Ora che mi ritrovo davanti un foglio bianco da riempire sto realizzando che non è così semplice, che non è così facile scrivere di una persona cara a cui hai voluto un bene enorme e della quale, forse, ancora non ne accetti l’assenza. In questo momento la mia mente è piena di ricordi che si rincorrono, che sgomitano per farsi avanti, come se ognuno di essi avesse paura di essere dimenticato. Non so se riuscirò a scrivere un “bell’articolo” che possa rendere onore alla memoria di un uomo speciale. Forse sarà solo una riflessione tra me e me: non me ne vogliate. Scrivere di Dino non è facile e non è facile farlo senza retorica. Credo che succeda sempre così quando si parla di persone che hanno vissuto la loro vita conformemente alle loro parole ed alle loro idee. Non lo so, ne ho incontrate veramente poche di queste persone. Ho conosciuto Dino nel luglio del 1998 a S. Ilario, in occasione di uno sbarco di profughi kurdi. Aveva appena riacquistato la libertà dopo essere stato nel carcere di massima sicurezza di Diyarbakir dove aveva partecipato ai festeggiamenti per il Nawroz. Come ogni anno la polizia turca aveva caricato massacrando, indistintamente uomini, donne, anziani e bambini. Dino questa volta aveva commesso quello che le autorità turche hanno definito “azione di apologia al terrorismo”: aveva voluto vedere con i suoi occhi quello che succedeva durante queste incursioni, aveva voluto essere testimone dei massacri, dei pestaggi, degli stupri, delle deportazioni. Per questo è stato portato nel carcere “E” di Diyarbakir, il carcere di massima sicurezza. Peccato, però, che le autorità turche avessero fatto male i conti. Volevano fermarlo, chiudergli la bocca ed invece hanno ottenuto l’effetto contrario. Ma Dino era così: più gli dicevi di non fare una cosa e più lui, se riteneva fosse giusto, la faceva. A costo della propria libertà. A costo della propria vita. Più volte Dino, dopo la sua scarcerazione, era venuto a Badolato. Aveva parlato con i kurdi, con i nostri paesani, aveva cercato di capire “la magia che si è creata in questo posto”. Dino amava Badolato: ne amava il mare, le colline, la gente, amava stare sveglio la notte ad ammirare il cielo stellato che “come qui è solo in Kurdistan”. Una delle ultime cose che mi ha detto, prima che la malattia lo costringesse immobile a letto e senza poter parlare, è stata: “Dani, voglio stare bene. Ho tante cose ancora da fare e poi voglio tornare al mare da te. Voglio tornare a vedere il mare di Badolato”. Da lì a breve, il 5 giugno scorso, se ne sarebbe andato. Dal lettino dell’ospedale di Perugia ha continuato a lottare fino alla fine. Quando sono stata a trovarlo ormai non parlava più e non si poteva muovere. Ma i suoi occhi dicevano più di quanto le parole potessero mai dire. È stato detto tanto di lui: che era un pacifista, che era in guerrafondaio, che era un sognatore, che era un comunista. Ai kurdi piaceva chiamarlo “yoldas”, compagno di viaggio. Mi piacerebbe ricordare Dino parlando della sua dolcezza, del suo sguardo rassicurante, del suo sorriso disarmante. Mi piacerebbe ricordare ogni sua parola: parole forti, potenti più di mille bombe. Mi piacerebbe ricordarlo per il suo schierarsi sempre e comunque dalla parte dei più deboli, per il suo crederci fino in fondo, per la sua limpidezza d’animo. Mi piacerebbe che nella mia mente prevalessero i ricordi delle serate passate a cantare e ballare insieme a Badolato, delle liti per la diversità di vedute, delle riappacificazioni con lui che diceva “sei una calabrese testa dura, ma ti voglio bene lo stesso”, delle inutili attese perché “scusa ho perso il treno”. Purtroppo per ora non è così. Per ora ho stampato nella mente il ricordo dell’ultima volta che l’ho visto, nel reparto di oncologia dell’ospedale di Perugia. Stava molto male: non parlava, non si poteva muovere ma era lucidissimo. I suoi occhi ti scrutavano dentro cercando di dire quello che la bocca non poteva dire più. La presa dell’unica mano che riusciva a muovere era forte nello stringere la tua, come se con quel contatto avesse voluto segnarti per sempre. E così ha fatto con l’ultima carezza lasciata sul mio viso. |